Don Antonio Integlia, un
salesiano della nostra ispettoria, è in partenza per la Patagonia, luogo significativo
per ogni missionario di don Bosco. Abbiamo deciso di intervistarlo, e lui
ha entusiasticamente accolto questo invito a raccontare la genesi della propria
vocazione missionaria, radicata in un percorso pluriennale a servizio dei
poveri e degli emarginati. Cammino fatto di riscontri concreti, di Dono calato
nella realtà difficile del prossimo, che poi si è evoluto in altro, dando il
frutto che serbava forse da sempre. La partenza di don Antonio è temporanea, ma
solo formalmente: trascorrerà, per ora, un anno sul suolo argentino, allo scopo
di imparare la lingua ed integrarsi nel contesto pastorale della zona. Potrà
poi partire, propriamente da missionario, nel 2022. Eppure con l’anima è già
pronto: io parto, ci dice. E questa importante tappa propedeutica non renderà
la sua scelta meno definitiva.
Iniziamo da una domanda di prassi: perché hai deciso di partire?
Amo questa domanda: quando ci si chiede il perché, si arriva
al cuore delle cose. Si scava nell’intimità del proprio essere profondo e
nascosto, dove il più è mistero: per questo a tanti perché, per quanto ci si
provi, si finisce per non rispondere mai.
E ciò nondimeno è fondamentale porseli: perché partire? La
risposta – parziale – che mi sono dato, è che il sogno missionario è sempre
stato dentro di me. Ad un certo punto è semplicemente riemerso. Io potrei
continuare per tutta la vita a fare quello che faccio: mi rende felice, come un
gioco importante che sta riuscendo bene. Ma nel momento in cui penso alla
Missione, mi sorride il cuore: sento che si apre un altro mondo, un’altra
strada. E che questa strada corrisponde nel profondo a me stesso.
Mi viene in mente quanto si dice nel monologo Novecento: si
possono scegliere tutte le strade del mondo, e molte sarebbero strade felici, eppure
tra tutte se ne sceglie una. Il motivo è intimo, misterioso, e deriva da questo
sorriso interiore che esiste da moltissimo tempo. E che ho semplicemente
riscoperto. Perché non permettere al cuore di sorridere?
Prima della scelta missionaria, molto a lungo sei stato membro attivo della comunità salesiana in Italia, inaugurando e curando Centri Diurni, ed altre realtà a servizio dei più poveri ed emarginati. Perché partire proprio ora, dopo tanti anni? Come si relaziona la scelta missionaria con la tua attività passata?
Sono sempre più convinto che l’idea che Dio ha del tempo, il
tempo in Dio ed il tempo di Dio, siano completamente diversi dal modo che noi
abbiamo di percepirlo, di viverlo. Questo tempo che ci rende prigionieri, e che
noi proviamo ad imprigionare. Per Dio, è sempre il momento giusto.
Ed ho la profonda sensazione che proprio adesso, alla mia
età, sia il momento giusto per questa mia svolta. Ho la sensazione che Qualcuno
mi aspettasse proprio qui. E che tutto ciò che ho fatto in passato sia stato
una preparazione a questo momento, che non poteva in alcun modo arrivare prima.
Il mio percorso è un susseguirsi di passi che conducono alla scelta presente, e
ciò che ho seminato tornerà nella mia esperienza missionaria.
Voglio aggiungere una cosa: per prendere coscienza di quando
è il momento giusto, c’è bisogno di qualcuno che sia in grado di recepirlo. Di
ascoltare e raccogliere un sogno, non lasciandolo cadere. E tutto l’iter che,
come da prassi, ho seguito per esaudire il desiderio missionario, è stato
costellato di persone che hanno scelto di non lasciar cadere questa mia
disponibilità… fino al Consigliere per le Missioni salesiane, con cui ho
scoperto che sarei andato in Argentina: l’idea iniziale era di partire per
l’Africa, zona francese, allo scopo di imparare una lingua. E poi è arrivata
una proposta diversa: se Papa Francesco ha chiesto di non dimenticare
l’Argentina, allora forse quella doveva essere la mia destinazione.
L’Argentina, la Patagonia: l’11 novembre 1875 furono meta della prima spedizione missionaria salesiana. Che significato attribuisci a questa meta?
Lo hai detto anche tu: il significato simbolico di questa
meta è enorme. La sensazione è di entrare in un mito, di contribuire, nel
piccolo del mio operato, ad una leggenda. Mi riempie di entusiasmo.
Ma oltre questo livello euforico, in profondità, trovo un
significato che è più grande ancora: dove l’Argentina è per me un luogo
spirituale, più che un luogo fisico. Il luogo che Papa Francesco, che fu
vescovo a Buenos Aires, ha definito la fine del mondo. Anche nel passo
dell’Ascensione, quando Gesù invia i suoi discepoli in missione, a predicare il
Vangelo in tutto il mondo, si congeda con queste parole: « Ecco, io sono con
voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo. » (Mt 28,16-20).
La scelta missionaria mi ha fatto leggere quest’espressione
in una luce nuova: la possibilità di fare un viaggio alla fine del mondo della
mia Anima. Di evangelizzarmi, attuando una conversione anzitutto mia. Scoprendo
lati sconosciuti di me stesso, attraverso l’incontro con un contesto per me
radicalmente nuovo e periferico.
Ed a questa dimensione personale, interiore, che è
ineludibile, se ne aggiunge un’altra su ampia scala: con Papa Francesco, la
periferia del mondo è diventata il centro, perché nel suo cuore sono i poveri
che abitano quei luoghi e che lo hanno conosciuto, nel suo cuore e nel cuore di
Roma. Ed il centro, a sua volta, va in periferia, nei termini della vocazione
missionaria. Sento nel mio piccolo di poter essere partecipe di questo scambio
fondamentale.
Dai Ricordi consegnati da don Bosco ai partenti: Prendete cura speciale degli ammalati, dei fanciulli, dei vecchi e dei poveri, e guadagnerete la benedizione di Dio e la benevolenza degli uomini. In che modo credi che questo principio potrà ispirare il tuo operato?
Questo principio mi sarà guida, più di tutto, affinché il
mio operato sia pratica di Tenerezza. Che è Misericordia, che è maternità. In
tutti gli uomini c’è un desiderio di dare e ricevere tenerezza, per essere
strumento di quell’Amore più grande che ci salva tutti. Che la tenerezza di don
Bosco illumini la mia attività missionaria, allora.
E quali altri punti cardine del carisma salesiano guideranno la tua presenza missionaria?
Li riassumerei nel motto che don Bosco scelse per la nostra
Congregazione: « dammi le anime, prenditi il resto ». E tra queste anime c’è
anche la mia: la Pace va realizzata anche per sé, per potersi mettere a
servizio di quella degli altri. Voglio essere fedele a queste parole di don
Bosco lavorando per la piena realizzazione e per la felicità, mia e dunque del
prossimo.
Cosa ti aspetti da questa esperienza? Quali pensi che saranno le maggiori fonti di gioia, e le maggiori fonti di difficoltà?
Sono disposto a dare tutto, e mi aspetto tutto: niente di
meno che la Pace vera, che una Gioia piena. Al di là delle pulsioni interne ed
esterne, essere una persona di pace che dona pace. E che sia una Gioia
costruita concretamente, lavorando, vivendola. In primis con i miei
confratelli, e poi con la gente.
Mi sono spesso domandato cosa mi potrà mancare, una volta in
missione: e l’unica mia sicurezza è che non mi mancherà mai la Gioia. Che altro
non è che avere un rapporto costante con Gesù. E quel rapporto, ovunque tu sia,
c’è: nessuno può sottrartelo. La mia gioia è la certezza: che Dio non muta, che
mi ama e continuerà ad amarmi teneramente. Fonte di Gioia sarà quindi
l’esperienza in sé, vissuta in modo totalizzante, mettendo le mani in pasta.
Imparando non solo una lingua, ma una cultura, uno stile, e sapendo che lì, in
quel mondo periferico, c’è già il Vangelo, vive già Gesù: bisogna solo
mettersene in ascolto.
Poi, certo, potrò incontrare delle difficoltà, ma non credo che esistano mai difficoltà più gravi di quelle passate. Sono solo diverse. Tutte le difficoltà che potrebbero sorgere, credo, deriverebbero dalla tentazione di essere apprezzato, valorizzato: di cadere, come amo dire, in una psicologia da principino. Questo è quel che dovrò evitare: non onore, non gloria, come raccomanda don Bosco. Ma mettersi al servizio.
Per finire: qual è il tuo “sogno missionario”? Quale
auspicio rivolgi al futuro sul tema della vocazione missionaria salesiana?
Ho detto che il fondamento dell’esperienza missionaria è
mettersi al servizio: ma troppo spesso questo principio viene frainteso,
traviato nell’atteggiamento remissivo di chi lavori per dovere. Io voglio che
venga inteso in modo diverso.
Nella celebre storia dell’innalzamento dell’obelisco in
piazza San Pietro, un marinaio ebbe il coraggio di gridare “acqua alle funi!”,
per scongiurare il disastroso incendio. Credo che, per la vocazione
missionaria, possa valere l’opposto: che l’incendio sia salvifico, e si debba
avere il coraggio di proporlo. Io griderei: “fuoco al carisma!”. Che il carisma
possa essere incendiato, che sia incontenibile quanto un vulcano. Emanando
gioia, entusiasmo, energia.
Al di là dell’immagine, nel profondo, quest’auspicio porta a
credere che davvero lo Spirito può far nuove tutte le cose. E ad avere quindi
il coraggio della novità, di alzare l’ancora e prendere il largo.
Abbandonando il “si è fatto sempre così”, il percorrere solo strade conosciute,
che danno sicurezza. In quest’ottica, anch’io, alla mia età, posso fare
qualcosa di nuovo.
Alice Picchiarelli